montagne con la vetta
Marco Bianchi sulla Via Ruchin ai Magnaghi, Grignetta. Foto Andrea Rosa

Marco Bianchi sulla Via Ruchin ai Magnaghi, Grignetta.
Foto Andrea Rosa

Sulla vetta dello Shisha Pangma l’aria era fredda, pura. Osservavo sbalordito uno spettacoloso groviglio di ghiacci e roccia che in ogni direzione urlava con prepotenza la sua bellezza. Poi rimasi incantato. I sensi, per un istante, vennero meno. Tre piramidi, perfette, regolari, straordinariamente alte e slanciate, emergevano dalla crosta terrestre come uragani cristallizzati. Erano l’Everest, il Lhotse e il Makalu. Niente li superava. Niente poteva essere altrettanto immenso. La forza dei continenti che, schiantandosi l’uno contro l’altro, li aveva generati, si era fusa in quelle muraglie immani. Di fianco a loro, quasi in disparte, come un timido bambino, stava il Cho Oyu. La sua bianca cima piatta e larga risplendeva sotto il sole. Il blu del cielo penetrava nelle linee delle montagne, le avvolgeva, ne distorceva le forme. Questo cielo sterminato, profondo, infinito. Tutto gli apparteneva, noi uomini e l’Himalaya. I seracchi, l’altopiano tibetano, le foreste nepalesi. Era formato dagli oceani, dai fiumi, dagli animali. Quel cielo era nulla e ogni cosa. Mi era lontanissimo e vicino. Così vicino da essere in me e così lontano da non poterlo neanche vedere. Perché non si fermava da nessuna parte. Non aveva confini né colori. Né forme né dimensioni. Il suo blu era anche nero. Il suo blu era anche bianco. (da Montagne con la Vetta)

Felicità, stupore, attrazione, libertà, ma anche dubbi e paure. Questo ha sempre rappresentato per me la montagna. Non un luogo fisico dove praticare uno sport, non un terreno di conquista o di gara, ma un ambiente naturale unico e meraviglioso nel quale muoversi alla ricerca dell’ignoto, dove vivere la gioia dello scoprire, dove poter trovare quell’armonia che la nostra società tende sempre più a incrinare, e anche quel luogo magico dove provare, forse solo per un istante, l’illusione della fiaba. Non ho mai avvertito l’arrivo sulla vetta di qualunque montagna come una vittoria o una conquista. Come un’affermazione o un successo personale. È il raggiungimento della pace interiore, della tranquillità. L’unico momento in cui il fuoco che ribolle nell’animo si spegne e, per pochissimi istanti, mi sento parte dell’universo. Quando io stesso sono il freddo, la neve, il vento, il sole.

Marco Bianchi sulla cima dell'Everest. Foto Christian Kuntner

Marco Bianchi sulla cima dell’Everest.
Foto Christian Kuntner

Nonostante sia nato e cresciuto in una grande città, ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare la montagna fin da bambino durante le vacanze estive nelle Dolomiti. Mentre percorrevo i sentieri della Val di Fassa e della Val Gardena, ai piedi del Sella o del Sassolungo, ero incantato dai boschi, dai ghiaioni, dalle creste affilate e dalle gialle pareti strapiombanti. Provavo una sensazione di curiosità irresistibile che mi spingeva sempre avanti per vedere cosa si nascondesse dietro la successiva cresta di roccia o al di là della sella più lontana. Leggevo avidamente tutti i libri di alpinismo che riuscivo a trovare e sognavo meravigliose avventure negli angoli più remoti della Terra. Nei miei pensieri di allora, le grandi montagne delle Alpi, dal Monte Bianco al Cervino o, addirittura, la catena dell’Himalaya con i suoi colossali Ottomila, mi sembravano appartenere a un altro pianeta. Non riuscivo a dar loro una dimensione, era un mondo superiore, irreale, che fluttuava nell’immaginazione impalpabile e irraggiungibile.

Anche le fotografie mi colpivano profondamente. La parete nord delle Grandes Jorasses con i suoi scuri pilastri o la parete nord dell’Eiger con i suoi scivoli di calcare cariato mi intimorivano almeno quanto i racconti delle loro prime salite. Tuttavia l’istinto mi guidava verso la montagna e so che è stata la curiosità di scoprire, insieme ai sogni creati dai libri e dalle fotografie, a farmi scalare le montagne delle Alpi e del mondo. Diventato adulto, ho avuto la fortuna e il privilegio di poter realizzare i miei sogni. L’incontro con l’Himalaya, con la realtà sognata per tutta l’adolescenza, non solo ha mantenuto tutte le aspettative che nutrivo per quel mondo quasi sovrannaturale ma, spesso, mi ha svelato una dimensione ancora più grandiosa di quella immaginata. Dall’Everest al K2, dal Dhaulagiri al Manaslu e sulle vette di altri Ottomila, ho avuto la conferma che il mio amore per le montagne era determinato dalla curiosità, la quale, continuamente, veniva stupefatta dal mondo che mi circondava.